Ecco: mi piacerebbe, terminando, d'essere nella luce.
Di solito la fine della vita temporale,
se non è oscurata da infermità, ha una sua fosca chiarezza:
quella delle memorie, così belle, così attraenti, così nostalgiche,
e così chiare ormai per denunciare il loro passato irricuperabile
e per irridere al loro disperato richiamo.
Vi è la luce che svela la delusione d'una vita
fondata su beni effimeri e su speranze fallaci.
Vi è quella di oscuri e ormai inefficaci rimorsi.
Vi è quella della saggezza che finalmente intravede la vanità delle cose
e il valore delle virtù che dovevano caratterizzare il corso della vita:
vanitas vanitatum. Vanità della vanità.
Quanto a me vorrei avere finalmente
una nozione riassuntiva e sapiente sul mondo e sulla vita:
penso che tale nozione dovrebbe esprimersi in riconoscenza:
tutto era dono, tutto era grazia;
e com'era bello il panorama attraverso il quale si è passati;
troppo bello, tanto che ci si è lasciati attrarre e incantare,
mentre doveva apparire segno e invito.
Ma, in ogni modo, sembra che il congedo
debba esprimersi in un grande e semplice atto di riconoscenza,
anzi di gratitudine: questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli,
i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità,
un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente;
un avvenimento degno d'essere cantato in gaudio, e in gloria:
la vita, la vita dell'uomo!
Giovanni Battista Montini, Paolo VI
(L'Osservatore romano, 9 agosto 1979)