venerdì, giugno 30, 2006

Chi sono?

Chi sono? Spesso mi dicono
che parlo a chi mi sorveglia
con libertà, affabilità e chiarezza
come spettasse a me di comandare.

Chi sono? Anche mi dicono
che sopporto i giorni infelici
imperturbabile, sorridente e fiero
come chi e' avvezzo alla vittoria.

Sono io veramente ciò che gli altri dicono di me?
O sono soltanto ciò che io stesso conosco di me?
Inquieto, pieno di nostalgia, malato come uccello in gabbia,
bramoso di aria come mi strangolassero alla gola,
affamato di colori, di fiori, di voci d'uccelli,
assetato di parole buone, di umana compagnia,
tremante di collera davanti all'arbitrio e all'offesa più meschina,
agitato per l'attesa di grandi cose,
preoccupato e impotente per gli amici infinitamente lontani,
stanco e vuoto nel pregare, nel pensare, nel creare,
spossato e pronto a prendere congedo da ogni cosa?

Chi sono? Questo sono o sono quello?
Sono oggi uno, domani un altro?
Sono io l'un l'altro insieme? Davanti agli uomini un simulatore
e davanti a me uno spregevole, querulo vigliacco?
O ciò che ancora io sono somiglia all'esercito sconfitto
Che si ritrae in disordine davanti alla vittoria già conquistata?

Chi sono? Porre domande così da soli è a scherno mio.
Chiunque io sia, tu mi conosci, tuo io sono, o Dio!

Dietrich Bonhoeffer

giovedì, giugno 29, 2006

Il fascino delle possibilità infinite

Il fascino delle possibilità infinite distoglie per natura sua dalla scelta limitante e impegnativa, e alletta proprio col miraggio dell'eterna novità: cambia canale, cambia sito su internet, cambia look, cambia macchina, cambia religione, cambia identità, cambia donna, cambia marito, perché tutto ti è possibile, non ti limitare... e il delirio d'onnipotenza si sposa così con l'inconcludenza esistenziale, con l'incapacità di fare scelte mirate e stabili.

Amedeo Cencini ("Vangelo giovane" ed. Rogate).

mercoledì, giugno 28, 2006

NON POSSO

È una parola che pronunciamo con troppa leggerezza. È una parola micidiale. È una parola che spesso liquida i problemi senza lasciarceli neppure affrontare. È una parola che molto spesso uccide la nostra carità. Ci siamo tanto abituati a queste due parole che le portiamo in noi costantemente.
È un cliché preparato al nostro egoismo. Quando è che in realtà "non possiamo"? Se non possiamo fare noi, possiamo almeno trovare chi farà per noi. Se non possiamo fare oggi, possiamo fare domani. Se non possiamo fare tutto, possiamo almeno fare qualcosa. È tremendo dire: "non posso"! È una ghigliottina della carità cristiana. Bisogna bandire quelle parole. Quando non posso veramente, posso almeno calarmi nel bisogno del fratello e versare una lacrima con lui.

(Monaco nel mondo)

martedì, giugno 27, 2006

Pennello

Avete il pennello, avete i colori, dipingete l'inferno, fate pure, dipingetelo, ma poi non date la colpa ai vostri genitori, non date la colpa alla società... e per amor del cielo, non date la colpa a Dio... Assumetevi la piena responsabilità di aver creato il vostro inferno.

Nikos Kazantzakis

Pensieri e Parole N.9

Esistono persone che all'ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d'argento, invece di salvare te, mio Dio. E altre persone che sono ridotte a ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessun se si è nelle tue braccia.
(Etty Hillesum)

venerdì, giugno 23, 2006

Dialogo sulla vita

L’Espresso – 27 aprile 2006

dialogo sulla vita

Colloquio tra il cardinale Carlo Maria Martini, teologo e biblista, già arcivescovo di Milano e ora ritiratosi a Gerusalemme; e il professor Ignazio Marino, direttore del Centro trapianti del Jefferson Medical College di Philadelphia, eletto al Senato nella lista dei DS.

Carlo Maria Martini: «Caro professor Marino, ho letto con molto interesse e partecipazione il suo libro “Credere e curare”. Mi ha colpito da una parte il suo amore per la professione medica e il suo interesse dominante per il malato e dall’altra la sua obiettività di giudizio, il suo equilibrio nel trattare problemi di frontiera, là dove le esigenze mediche si incontrano e talora sembrano scontrarsi con le esigenze etiche. Ho visto come lei non vuole rinunciare né alla sua oggettività professionale di medico né alla sua coscienza di uomo e anche di credente. Tutto ciò mi pare molto importante per quel “dialogo sulla vita” che interessa giustamente tanto i nostri contemporanei, soprattutto per quei casi limite in cui gli ardimenti della scienza e della tecnica destano da una parte meraviglia e gratitudine e dall’altra suscitano preoccupazione per la specie umana e la sua dignità.
Tutto questo rende necessario e urgente un “dialogo sulla vita” che non parta da preconcetti o da posizioni pregiudiziali ma sia aperto e libero e nello stesso tempo rispettoso e responsabile». Ignazio Marino: «Vedo anch’io molte ragioni per un dialogo oggettivo, approfondito e sincero sul tema della vita umana. Viviamo infatti un momento storico particolare in cui il progresso scientifico ha rivoluzionato la posizione dell’essere umano nei confronti della vita, della malattia e della morte. Oggi, diversamente da ieri, si può nascere in molti modi diversi, si può essere curati con terapie straordinarie e mantenuti per lungo tempo, in un reparto di rianimazione, in uno stato che può essere chiamato “vita” semplicemente dal punto di vista delle funzioni fisiologiche. La morte è sempre più considerata come un evento eccezionale da evitare e non il naturale traguardo a cui giunge inevitabilmente ogni vita umana. Questi cambiamenti influenzano non solo il corso della nostra esistenza ma anche il modo di concepire la vita, la malattia e la morte. Per questo non è possibile ignorare gli innumerevoli quesiti etici che emergono dai Continui cambiamenti legati alle nuove tecnologie e alle possibilità che la scienza mette a disposizione degli uomini. Il dialogo su questi temi e il confronto tra uomini di diversa formazione e con differenti ruoli all’interno della società può contribuire alla circolazione di idee e posizioni volte ad individuare punti di incontro e non di divisione.
Su temi così delicati, infatti, il rischio è di cadere in facili contrapposizioni e strumentalizzazioni che non portano alcun vantaggio se non quello di creare fratture nella società. Invece, se il ragionamento viene condotto onestamente e con spirito di sincera apertura, è possibile individuare percorsi comuni o per lo meno non troppo divergenti». L’inizio della vita Martini: «Sono pienamente d’accordo sulle sue premesse. Là dove per il progresso della scienza e della tecnica si creano zone di frontiera o zone grigie, dove non è subito evidente quale sia il vero bene dell’uomo e della donna, sia di questo singolo sia dell’umanità intera, è buona regola astenersi anzitutto dal giudicare frettolosamente e poi discutere con serenità, così da non creare inutili divisioni. Penso che potremmo iniziare qualche esperimento di un simile dialogo partendo dall’inizio della vita e in particolare da quella prassi, oggi sempre più comune, che si chiama “fecondazione medicalmente assistita” e alla sorte degli embrioni che vengono utilizzati a questo scopo. Su ciò vi sono non poche divergenze di pareri e anche incertezze di vocabolario e di prassi. Vuole chiarire un poco questo punto, sulla base della sua competenza?». Marino: «Oggi è possibile creare una vita in provetta, ricorrendo alla fecondazione artificiale. In presenza di problemi di fertilità all’interno di una coppia, la fecondazione artificiale può servire allo scopo di completare una famiglia con un figlio. Tuttavia, questa pratica si è diffusa in Italia e in molti altri paesi del mondo senza una regolamentazione prevista dalla legge. La scienza e le sue applicazioni mediche hanno camminato più rapidamente dei legislatori e, per questo motivo, ora ci troviamo ad affrontare il problema di migliaia di embrioni umani congelati e conservati nei frigoriferi delle cliniche per l’infertilità, senza che si sia deciso quale dovrà essere il loro destino. L’attuale legge italiana, per evitare di perpetuare la produzione di embrioni di riserva che non vengono utilizzati, ha scelto una via semplicistica: crearne solo tre alla volta e impiantarli tutti nell’utero della donna. Ma questo numero, se si ragiona su base scientifica, dovrebbe essere flessibile e determinato caso per caso, secondo le condizioni mediche della coppia.
Però, la scienza viene in aiuto per suggerire delle alternative alla creazione e al congelamento degli embrioni. Esistono delle tecniche più sofisticate di quelle utilizzate oggi, che prevedono il congelamento non dell’embrione ma dell’ovocita allo stadio dei due pronuclei, cioè nel momento in cui i due corredi cromosomici, quello femminile e quello maschile, sono ancora separati e non esiste ancora un nuovo Dna.
In questa fase non è possibile sapere che strada prenderanno le cellule nel momento in cui inizieranno a riprodursi: potrebbero dare origine ad un bambino come a due gemelli monozigoti. Non c’è l’embrione, non c’è un nuovo patrimonio genetico e quindi non c’è un nuovo individuo. Dal punto di vista biologico non c’è una nuova vita. Possiamo allora pensare che essa non ci sia nemmeno dal punto di vista spirituale e quindi che non esistano problemi nel valutare l’idea di seguire questa strada anche da parte di chi ha una fede?». Martini: « Capisco come questi fatti angustino molte persone, soprattutto quelle più sensibili ai problemi etici. E insieme sono convinto che i processi della vita, e quindi anche quelli della trasmissione della vita, formano un continuum in cui è difficile individuare i momenti di un vero e proprio salto di qualità. Questo fa sì che quando si tratta della vita umana, occorre un grande rispetto e un grande riserbo su tutto ciò che in qualche modo la manipola o la potrebbe strumentalizzare, fin dai suoi inizi. Ma ciò non vuol dire che non si possano individuare momenti in cui non appare ancora alcun segno di vita umana singolarmente definibile. Mi pare questo il caso che lei propone dell’ovocita allo stadio dei due protonuclei. In questo caso mi sembra che la regola generale del rispetto può coniugarsi con quel trattamento tecnico che lei suggerisce. Mi pare anche che quanto lei propone permetterebbe il superamento di quel rifiuto di ogni forma di fecondazione artificiale che è ancora presente in non pochi ambienti e che produce un doloroso divario tra la prassi ammessa comunemente dalla gente e anche sancita dalle leggi e l’atteggiamento almeno teorico di molti credenti. Ritengo comunque opportuna una distinzione tra fecondazione omologa e fecondazione eterologa. Ma mi sembra che un rifiuto radicale di ogni forma di fecondazione artificiale fosse basato soprattutto sui problema della sorte degli embrioni. Nella proposta che lei illustra tale problema potrebbe trovare un superamento. La fecondazione eterologa Marino: «Lei ha accennato anche alla distinzione tra fecondazione omologa ed eterologa. Il problema è molto discusso. Infatti, se il desiderio di una coppia di creare una famiglia non può essere compiuto a causa di problemi di infertilità o per la presenza di malattie genetiche in uno dei due potenziali genitori, perché non ricorrere al seme o all’ovocita di un individuo esterno alla coppia? Non potrebbe rappresentare una soluzione per riuscire ad andare incontro a quel desiderio di famiglia? Il patrimonio genetico conta comunque di più? Riflettendo su questo tema, la mia prima valutazione sarebbe in favore della fecondazione eterologa, se questa è l’unico mezzo per avere un figlio e se per la donna è importante avere una gravidanza. Però mi sono confrontato anche con chi sostiene che la fecondazione eterologa non di rado introduce un disequilibrio nella coppia tra il genitore biologico, che trasmette al figlio parte del proprio Dna e l’altro. Alcuni studi pubblicati su riviste scientifiche e condotti in paesi dove la fecondazione eterologa è ammessa, hanno evidenziato che si può effettivamente creare un nucleo familiare psicologicamente sbilanciato a favore del genitore che ha trasmesso al figlio una parte del proprio patrimonio genetico, come se in qualche modo un genitore valesse più dell’altro. Un’altra questione riguarda la trasparenza: il bambino che nasce da una fecondazione eterologa dovrebbe esserne informato? E, se la risposta è affermativa, è giusto seguire un percorso che può creare traumi psicologici, anche se nasce dal desiderio di avere un figlio? Vietare per legge il ricorso alla fecondazione eterologa significa limitare la libertà dei cittadini o va interpretata come una tutela per il futuro di chi verrà dopo di noi?». Martini: »Le obiezioni di natura psicologica che lei ha ricordato sono appunto tra i motivi che hanno bloccato non pochi sul fatto di procedere sulla via della fecondazione eterologa, anche se ciò può comportare sofferenze per alcuni. Si aggiunge dal punto di vista etico la protezione del rapporto privilegiato che col matrimonio si viene ad istituire tra un uomo e una donna. Personalmente tuttavia rifletto anche sulle situazioni che si vengono a creare con le varie forme di adozione e di affido, dove al di là del patrimonio genetico è possibile instaurare un vero rapporto affettivo ed educativo con chi non è genitore nel senso fisico del termine. Sarei dunque prudente nell’esprimermi su quei casi che lei ricorda, dove non è possibile ricorrere al seme o all’ovocita all’interno della coppia. Tanto più là dove si tratta di decidere della sorte di embrioni altrimenti destinati a perire e la cui inserzione nel seno di una donna anche single sembrerebbe preferibile alla pura e semplice distruzione. Mi pare che siamo in quelle zone grigie di cui parlavo sopra, in cui la probabilità maggiore sta ancora dalla parte del rifiuto della fecondazione eterologa, ma in cui non è forse opportuno ostentare una certezza che attende ancora conferme ed esperimenti».La ricerca sulle cellule staminali embrionali
Marino: I problemi connessi con gli embrioni hanno suscitato aspre discussioni anche sull’utilizzo a scopo di ricerca delle cellule staminali prelevate dagli embrioni stessi. Il referendum sulla procreazione medicalmente assistita del giugno 2005 chiedeva, tra le altre cose, di abrogare l’articolo della legge 40 in cui si vieta l’utilizzo di queste cellule staminali. Dal punto di vista scientifico è ipotizzabile, anche se non ancora confermato, che le cellule staminali embrionali siano le più adatte ai fini di ricerca, per individuare terapie per curare malattie molto gravi, dal morbo di Parkinson all’Alzheimer ecc. Esistono altri tipi di cellule staminali, prelevate da tessuti adulti o dal cordone ombelicale, che già oggi vengono utilizzate con qualche successo. Quasi tutti i ricercatori concordano sul fatto che non sia necessario creare embrioni con il solo scopo di prelevarne le cellule staminali: si possono infatti acquistare linee cellulari per condurre le
ricerche, e, inoltre, studi molto recenti condotti sui topi hanno dimostrato la possibilità di ottenere cellule che abbiano le stesse caratteristiche delle staminali embrionali senza dover creare degli embrioni. Resta in sospeso la questione che riguarda gli embrioni conservati nelle cliniche per l’infertilità e che con ogni probabilità non verranno mai utilizzati da nessuna coppia. La loro fine è certa, ma è meglio lasciarli morire nel freddo oppure utilizzare le preziose cellule per scopi di ricerca? In una visione di ortodossia religiosa, si tratta di vite e come tali non possono essere soppresse per prelevare le cellule a scopo terapeutico, anche se un giorno quegli embrioni saranno comunque distrutti. Si tratterebbe della diversità tra uccidere e il lasciar morire. Questo punto è eticamente superabile? Non è opportuno chiedere la donazione delle cellule staminali embrionali da destinare ai laboratori per sostenere la ricerca a favore di malattie oggi incurabili?».
Martini: «Innanzi tutto sono impressionato dalla prudenza con cui lei parla dell’efficacia terapeutica delle cellule staminali. Mi pare di capire che siamo ancora nel campo della ricerca e che quindi non è onesto propagandare certezze sull’efficacia curativa di queste cellule prima che ciò sia stato debitamente provato. Mi rallegro anche per il fatto che non è più ritenuto necessario creare degli embrioni con lo scopo di produrre le cellule staminali e che sono stati elaborati metodi alternativi che non pongono problemi alla coscienza. È un motivo in più per avere fiducia in quella intelligenza che il Signore ha dato all’uomo perché superi i problemi che la vita pone. E nel nome di questa stessa intelligenza che non vedo possibile pensare a una utilizzazione di cellule staminali embrionali per la ricerca. Ciò sarebbe contro tutti i principi esposti finora».
Gli embrioni congelati esistenti Marino: «La sua risposta mi permette di allargare la riflessione alla sorte degli embrioni esistenti anche aldilà di quanto sopra ipotizzato. Quando essi non vengono utilizzati, che cosa sarebbe etico fare? Attualmente non è stata individuata una soluzione, se non quella di abbandonare le provette nei congelatori. Ma è eticamente corretto ed accettabile tollerare che migliaia di embrioni umani restino congelati nelle cliniche per l’infertilità, attendendo semplicemente che si spengano nel freddo con il passare degli anni? Non potrebbero per esempio essere destinati a donne single che desiderano avere una gravidanza? Oppure a coppie con problemi legati a malattie genetiche che non possono ricorrere alla fecondazione artificiale normale per evitare il rischio di trasmissione del difetto genetico?». Martini: «Mi pare che qui siamo di fronte a un conflitto di valori, più evidente nel caso della donna single che desidera avere una gravidanza, ma esistente anche, per i motivi che ho detto sopra, per coppie che per gravi ragioni mediche non possono ricorrere alla fecondazione artificiale normale. Là dove c’è un conflitto di valori, mi parrebbe eticamente più significativo propendere per quella soluzione che permette a una vita di espandersi piuttosto che lasciarla morire. Ma comprendo che non tutti saranno di questo parere. Solamente vorrei evitare che ci si scontrasse sulla base di principi astratti e generali là dove invece siamo in una di quelle zone grigie dove è doveroso non entrare con giudizi apodittici Adozioni per single Marino: «Ci sono poi altri problemi, connessi allo sviluppo della vita, in particolare alla cura che la società deve avere per i bambini che non hanno una famiglia. In questi casi si apre la possibilità e l’utilità, anzi quasi la necessità di un’adozione. Oggi in Italia le adozioni non sono ammesse per i single e, più in generale, la legislazione è molto complessa e rende difficile ogni tipo di adozione. Mi chiedo se, dal punto di vista etico, sia preferibile che un bambino orfano o abbandonato dai genitori passi la vita in un istituto o sulla strada piuttosto che avere una famiglia composta da, un solo genitore? Siamo sicuri che sia questa la strada giusta per garantire la migliore crescita possibile a quel bambino? Del resto, se un genitore rimane vedovo, anche alla nascita del primo figlio, nessuno pensa che il bambino non debba continuare a vivere nel suo nucleo familiare anche se il genitore è solo uno. O ancora, la Chiesa sostiene che in presenza di un feto, in qualunque circostanza si debba invitare la donna a portare a termine la gravidanza, anche se il padre è assente o contrario, e quindi si tratterà di sostenere una madre che nei fatti sarà single. Perché allora non sostenere anche le adozioni per i single, una volta accertata la motivazione, i mezzi e le capacità del potenziale genitore di assicurare una crescita serena al bambino adottato?». Martini: «Lei si pone domande serie e ragionevoli su un tema complesso, sul quale non ho sufficiente esperienza. Ma penso che il punto di partenza è la condizione che lei esprime in chiusura. Occorre cioè assicurare che chi si prende cura del bambino adottato abbia le giuste motivazioni e abbia anche i mezzi e le capacità per assicurarne una crescita serena. Chi è in tale condizione? Certamente anzitutto una famiglia composta da un uomo e una donna che abbiano saggezza e maturità e che possano assicurare una serie di relazioni anche intrafamiliari atte a far crescere il bambino da tutti i punti di vista. In mancanza di ciò è chiaro che anche altre persone, al limite anche i single, potrebbero dare di fatto alcune garanzie essenziali. Non mi chiuderei perciò a una sola possibilità, ma lascerei ai responsabili di vedere quale è la migliore soluzione di fatto, qui e adesso, per questo bambino o bambina. Lo scopo è di assicurare il massimo di condizioni favorevoli concretamente possibili. Perciò, quando è data la possibilità di scegliere, occorre scegliere il meglio». Aborto Marino: «Uno dei temi più difficili da affrontare, su cui ci si interroga in continuazione proprio per la sua delicatezza e complessità, è l’aborto. In Italia, lo Stato ha regolato la materia, sforzandosi di coniugare il principio dell’autodeterminazione delle donne con la libertà di coscienza dei medici che possono scegliere l’obiezione. In questi anni in Italia abbiamo potuto constatare gli effetti della legislazione sull’aborto. Per quanto ciascuno di noi riconosca che l’aborto costituisce sempre una sconfitta, nessuno può negare che la legge ha permesso di ridurre il numero complessivo degli aborti e di tenere sotto controllo quelli clandestini, evitando di mettere a rischio la vita delle donne esposte a gravi disastri come le perforazioni dell’utero fatte dalle “mammane” per indurre l’aborto. Di fronte a casi estremi come una donna che ha subito una violenza, una gravidanza in un’adolescente di undici o dodici anni, una donna senza le possibilità economiche di allevare un bambino, come si pone la Chiesa? Se si ammette il principio della scelta del male minore e, come suggerisce la Chiesa cattolica, quello di affidare la risposta all’intimo della propria coscienza (conscientia perplexa: quella condizione in cui un uomo o una donna a volte si trovano ad affrontare situazioni che rendono incerto il giudizio morale e difficile la decisione), non sarebbe eticamente corretto spiegare apertamente questo punto di vista? E sostenerlo anche pubblicamente? ». Martini: «Il tema è molto doloroso e anche molto sofferto. Certamente bisogna anzitutto voler fare tutto quanto è possibile e ragionevole per difendere e salvare ogni vita umana. Ma ciò non toglie che si possa e si debba riflettere sulle situazioni molto complesse e diversificate che possono verificarsi e ragionare cercando in ogni cosa ciò che meglio e più concretamente serve a proteggere e promuovere la vita umana. Ma è importante riconoscere che la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che nella visione cristiana e di molte religioni comporta una apertura alla vita eterna che Dio promette all’uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità della persona. Anche chi non avesse questa fede, potrebbe però comprendere l’importanza di questo fondamento per i credenti e il bisogno comunque di avere delle ragioni di fondo per sostenere sempre e dovunque la dignità della persona umana. Le ragioni di fondo dei cristiani stanno nelle parole di Gesù, il quale affermava che “la vita vale più del cibo e il corpo più del vestito” (cfr Matteo 6,25), ma esortava non avere paura “di quelli che uccidono il corpo ma non hanno potere di uccidere l’anima” (cfr Mt 10,28). La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto. Nel vangelo secondo Giovanni Gesù proclama: “Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 6,25). E san Paolo aggiunge: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rom 8, 18). V’è dunque una dignità dell’esistenza che non si limita alla sola vita fisica, ma guarda alla vita eterna. Ciò posto, mi sembra che anche su un tema doloroso come quello dell’aborto (che, come lei dice, rappresenta sempre una sconfitta) sia difficile che uno Stato moderno non intervenga almeno per impedire una situazione selvaggia e arbitraria. E mi sembra difficile che, in situazioni come le nostre, lo Stato non possa non porre una differenza tra atti punibili penalmente e atti che non è conveniente perseguire penalmente. Ciò non vuoi dire affatto “licenza di uccidere”, ma solo che lo Stato non si sente di intervenire in tutti i casi possibili, ma si sforza di diminuire gli aborti, di impedirli con tutti i mezzi soprattutto dopo qualche tempo dall’inizio della gravidanza, e si impegna a diminuire al possibile le cause dell’aborto e a esigere delle precauzioni perché la donna che decidesse comunque di compiere questo atto, in particolare nei tempi non punibili penalmente, non ne risulti gravemente danneggiata nel fisico fino al pericolo di morte. Ciò avviene in particolare, come lei ricorda, nel caso degli aborti clandestini, e quindi è tutto sommato positivo che la legge abbia contribuito a ridurli e tendenzialmente a eliminarli. Comprendo che in Italia, con l’esistenza del Servizio Sanitario Nazionale, ciò comporta una certa cooperazione delle strutture pubbliche all’aborto. Vedo tutta la difficoltà morale di questa situazione, ma non saprei al momento che cosa suggerire, perché probabilmente ogni soluzione che si volesse cercare comporterebbe degli aspetti negativi. Per questo l’aborto è sempre qualcosa di drammatico, che non può in nessun modo essere considerato come un rimedio per la sovrappopolazione, come mi pare avvenga in certi paesi del mondo. Naturalmente non intendo comprendere in questo giudizio anche quelle situazioni limite, dolorosissime anch’esse e forse rare, ma che possono presentarsi di fatto, in cui un feto minaccia gravemente la vita della madre. In questi e simili casi mi pare che la teologia morale da sempre ha sostenuto il principio della legittima difesa e del male minore, anche se si tratta di una realtà che mostra la drammaticità e la fragilità della condizione umana. Per questo la Chiesa ha anche dichiarato eroico ed esemplarmente evangelico il gesto di quelle donne che hanno scelto di evitare qualunque danno recato alla nuova vita che portano in seno, anche a costo di rimetterci la vita propria. Non riesco invece ad applicare tale principio della legittima difesa e/o del male minore agli altri casi estremi da lei ipotizzati, né mi avvarrei del principio della conscientia perplexa, che non so bene che cosa significa. Mi pare che anche nei casi in cui una donna non può, per diversi motivi, sostenere la cura del suo bambino, non devono mancare altre istanze che si offrono per allevarlo e curarlo. Ma in ogni caso ritengo che vada rispettata ogni persona che, magari dopo molta riflessione e sofferenza, in questi casi estremi segue la sua coscienza, anche se si decide per qualcosa che io non mi sento di approvare». Compensi per la donazione degli organi?
Marino: «C’è un argomento che mi tocca da vicino, dato che da più di venticinque anni mi occupo di trapianti di organo. Grazie ai trapianti oggi migliaia di persone, altrimenti destinate a morte certa, guariscono e conducono un’esistenza piena da tutti i punti di vista. Il limite principale ad una maggiore diffusione di questa terapia è legato all’insufficiente numero di donazioni e quindi di organi da trapiantare, e di conseguenza molte persone muoiono in lista d’attesa. Per aumentare il numero di donatori, in alcuni paesi e principalmente in Gran Bretagna, è stata avanzata l’ipotesi di stabilire un compenso per le famiglie che accettano di donare gli organi del proprio parente dopo la morte. Il dubbio è se sia eticamente corretto proporre vantaggi materiali o denaro in cambio della donazione degli organi. Si potrebbe in questo modo probabilmente aumentare il numero delle donazioni e dei trapianti e rispondere così alle esigenze dei malati che attendono in lista un organo che salverà loro la vita. Eppure questa ipotesi contiene in se il presupposto per un comportamento non equo. Non si rischia di instaurare una situazione in cui solo i meno abbienti, incentivati da un compenso, saranno disposti a donare gli organi mentre i più ricchi si limiteranno a riceverli? E la donazione, proprio in quanto tale, non dovrebbe sempre e solo basarsi sul principio dell’uguaglianza?». Martini: «Personalmente sento molto ciò che lei afferma in conclusione, cioè l’importanza dei principio dell’uguaglianza e i pericoli gravissimi di una ipotesi di retribuzione per gli organi. Mi pare che la strada è invece quella di propagandare il più possibile il principio della donazione e far crescere la coscienza collettiva su questo punto. C’è davvero da auspicare che non vi sia più chi muoia in lista d’attesa, mentre vi sono organi disponibili».
Marino: «La questione dell’uguaglianza ci porta direttamente ad interrogarci su problemi e malattie che affliggono milioni di persone in tutto il mondo, soprattutto nei paesi più poveri e svantaggiati per i quali l’idea di uguaglianza rimane un sogno molto lontano se non una mera utopia. Come non pensare subito all’Aids? Circa 42 milioni di persone nel mondo sono portatrici del virus dell’Hiv Nel solo 2005 secondo i dati riferiti dalle agenzie dell’ONU, 3 milioni di persone sono morte di Aids mentre si sono registrati 5 milioni di nuovi infetti. Il 60 per cento dei portatori del virus vive nei paesi più poveri dell’Africa Sub-Sahariana, con un’incidenza media nella popolazione tra il 5 e il 10 per cento e punte che arrivano sino al 25-30 per cento in alcuni paesi come il Botswana o lo Zimbabwe. L’Hiv è la piaga di un continente che genera non solo ammalati ma orfani, povertà, impossibilità di migliorare le condizioni di vita. Nel mondo occidentale, oggi il virus viene tenuto sotto controllo grazie ai progressi nelle terapie farmacologiche che permettono ad un sieropositivo di condurre un’esistenza del tutto normale, con un’aspettativa di vita paragonabile a quella delle persone non affette dal virus. Fino a pochi anni fa, il costo annuale per i farmaci di una persona sieropositiva si aggirava intorno a dieci mila euro, una cifra proibitiva che poteva essere sostenuta soltanto dai paesi dove era presente un sistema sanitario nazionale. Oggi i prezzi, in regime di concorrenza, hanno subito un crollo, fino ad attestarsi a metà 2003 su 700 euro per i farmaci di marca (prodotti dalle multinazionali farmaceutiche) e intorno a 200 euro per i generici di fabbricazione indiana, brasiliana e tailandese. Nonostante questi importanti passi avanti, in molti paesi africani la spesa pro-capite in sanità non supera i 10 dollari l’anno per cui, nei fatti, l’accesso ai farmaci e alle terapie per contrastare l’Aids è negato e il virus continua a diffondersi. Sappiamo che l’Aids si può in parte contrastare con la prevenzione e l’utilizzo dei profilattici. Come è accettabile non promuovere l’utilizzo del profilattico per contribuire a controllare la diffusione del virus? È o non è un dovere dei governi fare scelte e prendere decisioni su questo tema? E, rispetto alla dottrina ufficiale della Chiesa cattolica, non si tratterebbe comunque di optare per un male minore e contribuire alla salvezza di tante vite umane?».Martini: «Le cifre che lei cita destano smarrimento e desolazione. Nel nostro mondo occidentale è assai difficile rendersi conto di quanto si soffra in certe nazioni. Avendole visitate personalmente, sono stato testimone di questa sofferenza, sopportata per lo più con grande dignità e quasi in silenzio. Bisogna fare di tutto per contrastare l’Aids. Certamente l’uso del profilattico può costituire in certe situazioni un male minore. C’è poi la situazione particolare di sposi uno dei quali è affetto da Aids. Costui è obbligato a proteggere l’altro partner e questi pure deve potersi proteggere. Ma la questione è piuttosto se convenga che siano le autorità religiose a propagandare un tale mezzo di difesa, quasi ritenendo che gli altri mezzi moralmente sostenibili, compresa l’astinenza, vengano messi in secondo piano, mentre si rischia di promuovere un atteggiamento irresponsabile. Altro è dunque il principio del male minore, applicabile in tutti i casi previsti dalla dottrina etica, altro è il soggetto cui tocca esprimere tali cose pubblicamente. Credo che la prudenza e la considerazione delle diverse situazioni locali permetterà a ciascuno di contribuire efficacemente alla lotta contro l’Aids senza con questo favorire i comportamenti non responsabili».La fine della vita Martini: «Ma credo che è giunto il momento per il nostro dialogo di passare ad un’altra serie di problemi che riguardano la vita, e precisamente quelli che si riferiscono alla fine di essa. È necessario vivere con dignità, ma per questo morire anche con dignità. Ora, come lei sa, qui si pongono, soprattutto in Occidente, problemi molto gravi. Marino: «Lei pensa certamente anzitutto all’eutanasia, una parola attorno a cui si crea sempre molta confusione attribuendole diversi significati. Per questo preferisco non parlare in astratto, ma esprimermi in maniera molto concreta. Si può o no ammettere che una persona induca volontariamente la morte di un’altra, sebbene gravemente ammalata e in preda a dolori fisici devastanti, per alleviare questo dolore? Di fronte ad una situazione irreversibile in cui la morte è inevitabile, ritengo sia assolutamente necessaria la somministrazione di farmaci come la morfina, che alleviano il dolore e accompagnano il malato con maggiore tranquillità nel passaggio dalla vita alla morte. È quanto viene fatto, in queste drammatiche circostanze, in tutte le rianimazioni negli Stati Uniti. lo stesso, pur soffrendone perché un medico vorrebbe sempre poter salvare la vita dei suoi pazienti, lavorando negli Stati Uniti ho deciso diverse volte di sospendere tutte le terapie. È un momento doloroso per la famiglia e, le assicuro, anche per il medico ma è una onesta accettazione che non si può fare più nulla se non evitare di prolungare sofferenze inutili e lesive della dignità del paziente. L’Italia è ancora gravemente carente in proposito, in assenza di una legge che regolamenti la materia al punto che se io eseguissi lo stesso tipo di procedimento nel nostro paese potrei essere arrestato e condannato per omicidio, mentre si tratta solo di non accanirsi con terapie senza senso. Non sono invece d’accordo nel somministrare una sostanza velenosa per provocare l’arresto del cuore del malato e quindi indurre la morte. E, pur condannando il gesto, non sono tuttavia certo che si possa condannare la persona che lo compie. Faccio un esempio: in un recente film vincitore del premio Oscar, dal titolo “One Million Dollar Baby”, viene descritto il dramma di una donna ridotta in stato semivegetativo dopo un grave incidente sportivo, che chiede ad un uomo, il suo principale punto di riferimento nella vita, di aiutarla a porre fine alla sua sofferenza fisica e psicologica. L’uomo inizialmente rifiuta poi accetta perché ritiene che quello sia un atto d’amore estremo verso l’essere umano a cui si tiene di più. Pur non riuscendo a giustificare l’idea della soppressione di una vita, mi chiedo, in situazioni simili, come si può condannare il gesto di una persona che agisce su richiesta di un ammalato e per puro sentimento d’amore? E d’altra parte è lecito ammettere il principio di non condannare una persona che uccide?». Martini: «Sono d’accordo con lei che non si può mai approvare il gesto di chi induce la morte di altri, in particolare se è un medico, che ha come scopo la vita del malato e non la morte. Neppure io tuttavia vorrei condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di una persona ridotta agli estremi e per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che in condizioni fisiche e psichiche disastrose lo chiedono per sé. D’altra parte ritengo che è importante distinguere bene gli atti che arrecano vita da quelli che arrecano morte. Questi ultimi non possono mai esser approvati. Ritengo che su questo punto debba sempre prevalere quel sentimento profondo di fiducia fondamentale nella vita che, malgrado tutto, vede un senso in ogni momento dell’esistere umano, un senso che nessuna circostanza per quanto avversa può distruggere. So tuttavia che si può giungere a tentazioni di disperazione sul senso della vita e a ipotizzare il suicidio per sé o per altri, e perciò prego anzitutto per me e poi per gli altri perché il Signore protegga ciascuno di noi da queste terribili prove. In ogni caso è importantissimo lo star vicino ai malati gravi, soprattutto nello stato terminale e far sentire loro che si vuole loro bene e che la loro esistenza ha comunque un grande valore ed è aperta a una grande speranza. In questo anche un medico ha una sua importante missione». Accanimento terapeutico o Interruzione delle terapie Marino: «Connesso con questo tema è quello dell’accanimento terapeutico. La tecnologia attuale è in grado di mantenere in vita malati che fino a pochi anni fa non venivano nemmeno condotti in un reparto di rianimazione. Il progresso scientifico permette di prolungare artificialmente anche la vita di una persona che ha perso ogni speranza di ritrovare una condizione di salute accettabile. Per questo appare urgente affrontare il problema dell’interruzione delle terapie. Ogni forma di accanimento terapeutico andrebbe evitata perché contrasta con il rispetto della dignità umana. Per la Chiesa, la sospensione delle terapie viene considerata come accettazione di un fatto naturale, di non accanirsi più. Il Catechismo della Chiesa cattolica dice: “L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente”.
Esistono strumenti legali, come il testamento biologico, che permettono al singolo individuo di indicare con precisione, e in un momento di tranquillità emotiva, fino a che punto si desidera accettare il ricorso a terapie straordinarie. Il testamento biologico rappresenta uno strumento molto valido per aiutare il medico e la famiglia a prendere la decisione finale. Dovrebbe basarsi su regole flessibili e indicare anche una persona di fiducia in grado di interpretare le volontà di quell’individuo tenendo conto degli ulteriori progressi della scienza. Molti paesi lo hanno adottato con buoni risultati. In Italia un disegno di legge è stato presentato al Senato da molto tempo ma attende ancora di essere discusso. Non sarebbe il momento di avviare una riflessione seria e condivisa per introdurre al più presto anche nel nostro paese una legislazione in merito alla fine della vita, cioè a uno dei momenti più importanti della nostra esistenza?». Martini: «Il testo da lei citato del Catechismo della Chiesa cattolica mi pare esauriente al proposito. Se si volesse legiferare su questo punto è però importante che non si introducano aperture alla cosiddetta eutanasia di cui abbiamo parlato sopra. Per questo sono incerto anche sullo strumento del testamento biologico. Non ho studiato l’argomento e non saprei dare un parere decisivo. Ritengo con lei che una riflessione seria e condivisa sulla fine della vita potrebbe essere utile, purché sia appunto seria e condivisa e non si presti a speculazioni di parte e soprattutto non introduca in qualche modo aperture a quella decisione sulla propria morte che ripugna al senso profondo del bene della vita, come sopra si è detto». La scienza e il senso del limite Marino: «In conclusione, vorrei proporre una riflessione più generale. La conoscenza, il progresso scientifico, l’avanzamento tecnologico creano straordinarie opportunità di crescita per il nostro pianeta ma allo stesso tempo mettono nelle mani di ricercatori e scienziati un grande potere, legato al fatto di essere in grado di intervenire sui meccanismi che regolano l’inizio della vita e la sua fine. La scienza corre più veloce del resto della società e anche dei parlamenti, incaricati di fissare delle regole ma il più delle volte incapaci di intervenire tempestivamente. A mio modo di vedere andrebbe richiesta con fermezza un’assunzione di responsabilità da parte di ogni scienziato coinvolto in un campo della ricerca che interviene sull’essenza della vita, sulla sua creazione e sulla sua fine. Fermo restando che la valutazione razionale è indispensabile, l’arbitrio del ricercatore dovrebbe essere disciplinato anche dal senso di responsabilità bilanciato dalla valutazione dei rischi e delle conseguenze.
Non si tratta di appellarsi alla fede o alla religione ma di puntare su una presa di coscienza da parte di ogni scienziato. Questo non significa voler arrestare il progresso scientifico ma preservare e rispettare il nostro bene più prezioso, ovvero la vita. Ma la storia purtroppo ci insegna che l’appello alla responsabilità individuale a volte non basta. Per questo gli scienziati devono fornire ogni informazione utile e alla fine dovrebbero essere i parlamenti, o meglio le istituzioni sovranazionali, a fissare le regole sulla base del comune sentire dei cittadini». Martini: «Tutti siamo pieni di meraviglia e di stupore, e quindi anche grati a Dio, per il formidabile progresso scientifico e tecnologico di questi anni che permette e permetterà sempre più e meglio di provvedere alla salute della gente. Insieme siamo consci, come lei dice, del grande potere che è nelle mani di ricercatori e di scienziati e della ferma assunzione di responsabilità che deve permettere ad essi di ricercare sempre valutando i rischi e le conseguenze delle loro azioni. Esse devono sempre contribuire al bene della vita e mai al contrario. Per questo occorre anche talora sapersi fermare, non varcare il limite. Io sono inclinato a nutrire fiducia nel senso di responsabilità di questi uomini e vorrei che avessero quella libertà di ricerca e di proposta che permette l’avanzamento della scienza e della tecnica, rispettando insieme i parametri invalicabili della dignità di ogni esistenza umana. So anche che non si può fermare il progresso scientifico, ma lo si può aiutare ad essere sempre più responsabile. Come lei dice, non si tratta di appellarsi alla fede o alla religione, ma di puntare sul senso etico che ciascuno ha dentro di sé. Certamente anche leggi buone e tempestive possono aiutare, ma come lei afferma, la scienza corre oggi più veloce dei parlamenti. Si esige quindi un soprassalto di coscienza e un di più di buona volontà per far sì che l’uomo non divori l’uomo, ma lo serva e lo promuova. Anche le istituzioni sovranazionali debbono prender coscienza del pericolo che tutti corriamo e del bisogno di interventi tempestivi e responsabili. In tutta questa materia occorre che ciascuno faccia la sua parte: gli scienziati, i tecnici, le università e i centri di ricerca, i politici, i governi e i parlamenti, l’opinione pubblica e anche le chiese. Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, vorrei sottolineare soprattutto il suo compito formativo. Essa è chiamata a formare le coscienze, a insegnare il discernimento del meglio in ogni occasione, a dare le motivazioni profonde per le azioni buone. A mio avviso non serviranno tanto i divieti e i no, soprattutto se prematuri, anche se bisognerà qualche volta saperli dire. Ma servirà soprattutto una formazione della mente e del cuore a rispettare, amare e servire la dignità della persona in ogni sua manifestazione, con la certezza che ogni essere umano è destinato a partecipare alla pienezza della vita divina e che questo può richiedere anche sacrifici e rinunce. Non si tratta di oscillare tra rigorismo e lassismo, ma di dare le motivazioni spirituali che inducono ad amare il prossimo come se stessi, anzi come Dio ci ha amato e anche a rispettare e ad amare il nostro corpo. Come afferma san Paolo, il corpo è per il Signore e il Signore è per il corpo. Il nostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in noi e che abbiamo da Dio: perciò non apparteniamo a noi stessi e siamo chiamati a glorificare Dio nel nostro corpo, cioè nella totalità della nostra esistenza su questa terra (cfr 1 Cor 6,13.19-20)».
a cura di Daniela Minerva

giovedì, giugno 22, 2006

Mi lamentavo

Mi lamentavo perché non avevo scarpe.
Poi alla porta della moschea di Damasco 
ho visto un uomo senza gambe...  
                                                 Saadi

mercoledì, giugno 21, 2006

Se la tua anima è turbata

Se la tua anima è turbata va in chiesa,
prostrati e prega. 
Se la tua anima rimane ancora turbata
vai a trovare il tuo padre spirituale, 
siediti ai suoi piedi e aprigli l'animo. 
E se la tua anima è sempre turbata, 
ritirati allora nella tua cella, 
stenditi sulla stuoia e dormi.

Padri del deserto


martedì, giugno 20, 2006

Scuola di non violenza


"È stata mia moglie ad insegnarmi la non violenza quando ho tentato di piegarla alla mia volontà. La sua ostinata resistenza da un lato, e dall'altro la sua paziente sottomissione alle sofferenze che la mia stupidità le causavano hanno fatto sì che infine mi vergognassi e la smettessi di credere di avere per natura il diritto di dominare su di lei".

(M.K.Gandhi)

lunedì, giugno 19, 2006

L'APOSTOLATO DEI LAICI

L'APOSTOLATO DEI LAICI

 

È certo che accanto ai preti ci vogliono delle Priscilla e degli Aquila che vedano quello che il prete non vede, arrivino dove il prete non può arrivare, vadano da chi lo evita, evangelizzino, con un contatto benefico, una bontà che si riversi su tutti, un affetto sempre pronto a donarsi, un buon esempio che attiri quanti girano le spalle al prete e gli sono ostili. Essere apostoli con quali mezzi? Con quelli che Dio mette a sua disposizione. (...) I laici devono essere apostoli con tutti coloro che possono raggiungere: i vicini e gli amici anzitutto, ma non soltanto loro, perché la carità non ha confini, abbraccia tutti quelli che abbraccia il cuore di Gesù.

Con quali mezzi? Con i migliori secondo quelli ai quali si rivolgono: con tutti quelli con cui sono in rapporto, senza eccezione, con la bontà, la tenerezza, l'affetto fraterno, l'esempio delle virtù, con l'umiltà e la dolcezza che sempre attraggono e sono così cristiane; con alcuni senza mai dir loro una parola su Dio e la religione, pazientando come pazienta Dio, essendo buoni com'è buono Dio, mostrandosi loro fratelli e pregando; con altri, parlando di Dio nella misura in cui sono in grado di accettarlo e, appena hanno in mente di ricercare la verità con lo studio della religione, mettendoli in contatto con un prete scelto molto bene e capace di far loro del bene... soprattutto, bisogna vedere in ogni essere umano un fratello - "Voi siete tutti fratelli, voi avete un solo padre che è nei cieli".

 

(Charles de Foucauld)

 

venerdì, giugno 16, 2006

Diventiamo architetti del tempo

Corriere della Sera – venerdì 26 maggio 2006

L’incontro

Bianchi, priore del monastero di Bose e Jobanotti: dialogo sull’enigma più grande

DIVENTIAMO ARCHITETTI DEL TEMPO

Uno dei personaggi più singolari del Cristianesimo moderno ha ospitato nella sua comunità monastica il popolare artista che più volte si è interrogato nei suoi dischi su come dare senso e valore al tempo

A cura di Alessandro Cannavò

L’uomo immerso nel verde e nei grandi silenzi quello che si nutre di decibel e di folle di fans. Quando ci è venuta l’idea dì far dialogare sul tema del tempo il priore di Bose Enzo Bianchi e Lorenzo Cherubini, alias Jovanotti, all’euforia iniziale era subentrato velocemente un razionale scetticismo. Perché mai due tipi così distanti dovrebbero confidarsi le loro riflessioni sull’enigma più grande deIIa nostra esistenza? Timori del tutto infondati. «Il priore di Dose? Ho letto molti suoi libri - ci ha detto Jovanotti  -.—. Mi è piaciuto per esempio il lavoro che ha fatto sulla spiritualità mariana per i Meridiani di Mondadori... Lui racconta il Cristianesimo non come dottrina ma attraverso delle storie. E per uno come me che va pazzo per le storie... Ha la capacità del divulgatore ma senza concedere nulla. Sarei felice di parlare con lui».
«Jovanotti? Ho sentito qualcosa delle sue canzoni, mi è molto simpatico – ci ha detto Enzo Bianchi- mi sembra che abbia una mente aperta. Ho auto l’avventura di conoscere altri cantanti. E non mi sono piaciuti. Certo che accetto di parlare con lui. E poi è stato un Beniamino di alcuni giovani presenti qui, prima che si ritirassero alla vita monastica».
A Bose, che si adagia e si nasconde in una dolce valle prealpina tra Ivrea e Biella, Jovanotti è arrivato dinoccolato come al solito, il sorriso da ragazzone amichevole e i pantaloni a vita bassa. Un postulante (uno di quei ragazzi che frequentano periodicamente la comunità per capire se hanno la vocazione per intraprendere un percorso monacale) quando lo ha visto avanzare a grandi passi si è illuminato come all’apparizione della Madonna. Enzo Bìanchi lo ha salutato con la sua voce corposa che fa da complemento a una barba ieratica e a due occhi felini, magnetici. Un patto reciproco e immediato: «diamoci del tu»
JOVANOTTI: «Sono stato al monte Athos. Quattro giorni, non era permesso rimanere di più. Ma mi è bastato per capire che la vita monastica è un laboratorio, una catena di montaggio artigianale del tempo. Riesce a dargli più peso, più senso...».
BIANCHI: «È vero, perché nei monasteri tutta la giornata è ritmata in modo preciso. Non ci si adegua al tempo automaticamente, non ci si lascia invadere dal tempo. E ci si trova in tre dimensioni: il presente, con l’azione hic et nunc; il passato, perché le nostre radici, la nostra memoria dei padri spirituali è molto forte; ma anche il futuro, perché viviamo nella grande attesa, piena di speranza. Che è quella della fede. Questi tre momenti hanno spazi ben definiti all’interno della giornata. Sveglia alle 4 del mattino perché vogliamo essere già presenti, consapevoli quando arriva l’aurora e poi l’alba. Il suono delle campane scandisce i momenti della preghiera personale che poi è un canto con melodie antiche. Finché alle 8 non segna la  fine del grande silenzio che per noi dura dodici ore, dalle 20 del giorno precedente: la fine del periodo in cui stiamo soli con noi stessi. Ed ecco, con la parte della giornata comunitaria, il tempo del lavoro. Nei campi, in cucina, nell’accoglienza, nell’amministrazione. Ma in questo arco di tempo ci sono nove momenti, nove rintocchi di campana in cui ognuno di noi, ovunque si trovi si ferma per un momento a pensare a un versetto che gli è stato dato al mattino. Fino aI momento dei vespri. Insomma, è una continua presa e modulazione del tempo. Si tratta di fare suoni e pause. Come nella musica».

J: «Il mio lavoro è esattamente questo: giostrarsi tra il tempo e il ritmo. Noi pensiamo alla sveglia come una cosa che fa tic tac e in realtà fa me inesorabilmente tic tic. Vuol dire che questo tempo Io rielaboriamo, lo recepiamo come musica. Per me che sono portato particolarmente a una musica ritmica, lontano dalle melodie tipiche della tradizione italiana, la scansione del tema diventa quasi un’ossessione. Nella musica mi sento padrone del tempo. Nella vita è certamente più difficile».
B:  «C’è una parola pronunciata da san Paolo che non ho trovato nemmeno negli autori greci. Lui parla di riscattare il tempo. La necessità di evitare costantemente che il tempo diventi un idolo che ti stritoli. Ogni volta che noi diciamo: non ho tempo, diciamo che siamo alienati al tempo Che non siamo noi a dominarlo, a organizzarlo. Il vero problema dell’uomo è creare un’architettura del tempo».
J: «Porse è questa architettura che mi fa sentire affascinato dagli aspetti del sacro. Ai quali peraltro mi avvicino da laico: non ho mai avuto visioni mistiche, il senso del miracoloso...».

B: «Neanch’io, mai. Nemmeno una voce. Coraggio, siamo pari...».

J: «Mio padre è stato un funzionario del Vaticano, io sono cresciuto vedendo ogni giorno la rappresentazione più sfarzosa della chiesa, la ricchezza, la folla; ma passavo le estati in Toscana, a Cortona, dove ora vivo. Qui il tempo dei miei ricordi da bambino era scandito dai riti semplicissimi del monastero delle Clarisse: le ostie, i dolcetti che andavo a prendere. Una semplicità che mi dà il tempo di pensare».

B: «Il pensare è richiesto dal tempo, la prima molla per cui uno pensa è proprio il problema del tempo. Perché resta l’enigma più grande: da quando ci siamo messi qui a parlare sono passati dieci minuti che non ritroveremo mai più nella nostra vita. Mangiati per sempre. Si può certamente essere presi dall’angoscia... Ma io credo che avere la consapevolezza del tempo possa servire ad affrontare questo enigma. E per allargare la consapevolezza c’è bisogno di leggere, di ascoltare. Una delle cose che facciamo qui a Bose durante il giorno è contemplare la natura. Si può avere un rapporto con tutto, anche con le pietre. Perché un sasso, anche se non parla con le voci che sento io, solo per il fatto che ogni volta che passi lo ritrovi lì ha un messaggio da comunicare. Ma per capirlo ci vuole tempo».

J: «Io non sono per la natura a tutti costi, per il mondo new age. Per molto tempo mi sono sentito un animale totalmente urbano. Anche un bellissimo palazzo mi può comunicare quella voce del sasso. Pensa che ho avuto questa sensazione con alcuni grattacieli che ho visto recentemente a Shangai. Ma da quando sono diventato padre mi ritrovo più sensibile ai tempi della natura, dei posti solitari. Però la solitudine per me non è che l’ombra della mia personalità pubblica, quella che ama stare in. mezzo alle folle».

B: «Se non c’è comunione, la solitudine diventa isolamento, il silenzio diventa mutismo. Le ore del silenzio devono preparare alla parola o forse ancora di più al canto. Altrimenti è una realtà che si autodistrugge. Allo stesso modo una persona che è presa dal vortice delle persone si dissipa e a un certo punto non riesce più a percepire se stessa nel tempo e nello spazio. Comunque l’uomo non può vivere solo, perché trae dagli altri che gli stanno attorno la forma della sua vita, del suo pensiero, del suo agire».

J: «È un concetto scientifico, nella fisica quantistica si spiega che l’atomo da solo non esiste...».

B: Ma è anche un concetto antropologico. E cristiano. Perché non esiste qualcosa di cristiano che non sia umano e antropologico. la grammatica è comune».

J: Però nel Cristianesimo il tempo ha una dimensione ben precisa che altre religioni non hanno...».

B: «Certo, per noi ha una promessa nel futuro. Detto banalmente, in questo mondo il bene vincerà sul male, la pace avrà la meglio sulla violenza. Si va verso la trasfigurazione, il regno dei cieli».

J: «Mi chiedo spesso se questo tipo di messaggio riesca oggi ancora a comunicare un senso all’uomo».
B: «Secondo me sì. Nella misura in cui l’uomo di oggi cerca senso, capisce due cose: la prima è che può darci senso il riuscire a capire che la morte non è l’ultima parola della nostra esistenza. Perché altrimenti abbiamo difficoltà a dare senso a molte cose di questa vita. Pensiamo all’amore: se la morte è l’ultima parola e spezza l’amore tra un uomo e una donna, questa è una grande minaccia che incombe su tutto. La seconda cosa è che qualunque speranza deve essere uno sperare per tutti e non solo per se stessi. In questo senso per noi cristiani il tempo ha uno scopo, un traguardo da raggiungere. Altri uomini hanno difficoltà a capire questo. Però il libro di Qohelet, quel piccolo gioiello della letteratura biblica che riflette con amarezza sulle malattie dell’esistenza umana, dice che Dio ha messo nel cuore umano il senso dell’eterno, anche se l’uomo non riesce ad afferrare l’inizio e la fine della creazione divina. Io vengo da una famiglia di non credenti, i miei più grandi amici sono non credenti. Ma il solo fatto che noi tutti finiamo per interrogarci su che senso abbia la morte, significa che abbiamo dentro un briciolo di eternità».

J: «E se tutto questo fosse solo un fatto chimico? Anche il senso dell’eternità: se finisse in me, con la mia morte?».

B: È possibile, il rischio ci vuole: quando si cresce, si rischia. Però ascoltami: il giorno in cui hai deciso di avere una storia con una donna, tu hai rischiato la tua fiducia con lei. E lei allo stesso modo con te. È questo rischio che dà senso alla vita. La stessa cosa in qualche misura succede quando si pensa che le cose hanno un fine e un destino. Rischio e fiducia».

J: «Io su questo punto ci ho scritto una canzone, “Mi fido di te”. In cui mi chiedo: “Cosa sei disposto a perdere?”. Il bello del mio lavoro è che posso riassumere in due, tre parole, la confusione che ho avuto nei due, tre anni in cui sono stato lontano dalle scene. Questa domanda che mi sono posto tante volte, credo che oggi sia cruciale: a che cosa siamo disposti a rinunciare?»

B: «Partire dal prezzo è importante, senza contropartite. Alla fine è questa la parola di Gesù resa nella sua verità quotidiana: se uno non si perde, non si ritrova. E lui non ti dice che cosa puoi trovare in cambio. A proposito, Jovanotti, che cosa hai fatto in questi tre anni di silenzio?»

J: «Ho anche letto la Bibbia. Come pratica giornaliera: le dedicavo un’oretta e cercavo di afferrare la storia. Ho finito per innamorarmi delle storie. Al di là dell’aspetto divino, nella Bibbia vedo le persone di tutti i giorni. Ho visto mio padre, mia madre. Ma è un libro che non consiglierei: bisogna incontrarlo».

B: «È vero, la Bibbia o è un incontro, oppure è un libro di etica, di pietà che non ha molto senso».

J: «Senti Enzo, perché il monaco mi comunica meno solitudine di un prete diocesano che vive nella nostra società?»

B: «Il prete è oggi una figura istituzionale. Il suo celibato, per esempio, è osservato per legge. Per noi, invece, il celibato è alla radice della scelta monastica. In cui siamo chiamati ad accettare ogni giorno di amare e di essere amati dagli altri monaci. L’amore è una sfida quotidiana perché cambiano le situazioni, si diventa anziani, fragili, ammalati. Ma questa circolazione costante dell’amore ci fa sentire meno soli. Se si esclude la sfera sessuale, è la stessa condizione di una coppia: noi abbiamo fatto un patto per stare insieme fino alla morte. Ma la crisi arriva anche a noi, eccome. Intorno ai 40 anni, come a tutti gli altri uomini: si avverte un lieve declino fisico, un calo dell’entusiasmo ma soprattutto si comincia a ragionare sulla morte. Che non si vuole accettare. Tema su cui proprio a quell’età volli scrivere un libro in cui affermavo che in fondo la morte mi avrebbe permesso di vedere quel Dio che ho tanto cercato. Finito di scrivere, ti confesso, che mi è venuta la paura, lo sgomento».

J: «E oggi sottoscriveresti quelle parole?»

B: «Si, certo. Ma da allora ogni giorno devo rinnovare la mia speranza. Del resto della crisi dei 40 anni ne parlavano persino san Basilio e san Gregorio nel IV secolo. Io l’ho avuta nell’85. È stato come entrare in una fornace. Poi, non si sa come, ne sono uscito rinnovato, con un nuovo soffio dentro di me, anche creativo. Forse mi hanno salvato le cose semplici, quelle che mi legano alla terra: cucinare e curare l’orto. E poi stare con gli amici più cari. La crisi mi ha portato una grande novità: il senso della compassione. Prima avevo il senso del perdono, della generosità, della misericordia, tutti atteggiamenti in cui c’è comunque un certo protagonismo. La compassione va oltre: io accetto di stare con una persona con-soffrendo, con-patendo. E questo dà una forza e una libertà che non vengono più meno».

J: «Io 40 anni li compio a settembre: sono pronto a entrare nella fornace… Però la vita è piena di cose inattese… Accanto al lieve declino fisico, avverto allo stesso tempo un senso di novità che non so ancora spiegare… L’entusiasmo per una vita nuova. Mi ricordo quando mio padre aveva 40 anni: per me era una montagna. Ora ce li ho io e sono contento del bagaglio di esperienze nella mia vita privata e professionale. Ma ho un difettaccio: quando arrivo alla fase cruciale di un libro accelero la lettura per vedere al più presto come va a finire. Così c’è questa nuova fase della vita: e non vedo l’ora che passi…».


ENZO BIANCHI

Nato nel 1943 a Castel Foglione (Monferrato), è il fondatore e priore della Comunità monastica di Bose (tra Ivrea e Biella).
Direttore della rivista biblica “Parola, Spirito e Vita”, collabora con diversi quotidiani.
È autore di numerosi saggi sulla spiritualità cristiana e sulla tradizione della Chiesa.
Tra i suoi libri, “Le parole della spiritualità” (‘99), “Dare senso al tempo” (‘03), “La differenza cristiana” (‘05) e “L’incredulità del credente”, un dialogo con Massimo Cacciari, appena uscito.

JOVANOTTI

Lorenzo cherubini è nato a Roma nel 1966 e ha iniziato la sua carriera alla fine degli anni ’80 ai microfoni di Radio Deejay.
L’album di esordio (‘88) è “Jovanotti for president” , un mix di discomusic e funky. Seguono lavori socialmente impegnati in cui Jovanotti fonde pop, rick, world music e canzone d’autore.
Tra i suoi dischi, “Una tribù che balla” (’91), “Lorenzo” (’94), “L’albero” (’97), “Il quinto mondo” (’02), “Buon sangue” (’05). È anche autore di tre libri, tra cui “Il grande boh!” (’98). È appena uscito il suo primo dvd, “Buon sangue live”.


LA COMUNITÀ

C’era solo qualche cascina senza luce né acqua quando nel ’66 Enzo Bianchi arrivò quassù, in quello che sarebbe diventato il monastero di Bose. Poco lontano, una piccola chiesetta romanica dell’XI secolo dedicata a San Secondo. Tutto il resto era spettrale, dopo che gli ultimi abitanti negli anni ’20 avevano abbandonato il piccolo villaggio adagiato sulle prealpi biellesi per tentare la fortuna in America. Visse da solo per tre anni, Enzo Bianchi. Poi si presentarono un protestante e una donna. Con il tempo la comunità si è allargata, oggi ospita 72 religiosi, l’unica in Europa a far convivere monaci e monache. E a mantenere il carattere ecumenico del Cristianesimo delle origini. Cattolici, ortodossi e protestanti si raccolgono intorno a una liturgia comune che armonizza le differenze confessionali. Si vive secondo le regole del monachesimo, con le giornate scandite dall’alternarsi di meditazione, lavoro, preghiera, studio e silenzio. La comunità è aperta a chiunque per soggiorni brevi o lunghi. Il programma delle attività per gli ospiti comprende corsi biblici, convegni, concerti, campi di lavoro.
Per informazioni, tel. 015 679185 oppure www.monasterodibose.it

giovedì, giugno 15, 2006

Metodologia di vittoria

"La sola metodologia di vittoria è la rinuncia a se stessi, il distacco radicale dalla propria piccola sfera, l'apertura (come conseguenza di questo distacco e di questo taglio) alla sfera mondiale di Dio: gli strumenti che suggerisce l'ambizione, la colpa, la meschinità, sono strumenti radicalmente privi di efficacia politica".
(Giorgio La Pira)

mercoledì, giugno 14, 2006

martedì, giugno 13, 2006

Perchè mi domandi

Perché mi domandi se sono uno dell'Africa, se sono uno dell'America, se sono uno dell'Asia, se sono un europeo? Sono soltanto un uomo. Aprimi fratello, aprimi la porta, aprimi il cuore, perché sono un uomo... l'uomo di tutti i tempi, l'uomo di tutti i cieli, l'uomo: uno come te.

René Philombe

lunedì, giugno 12, 2006

Gettare grano



Non appena ti levi dopo il sonno, subito, in primo luogo, la tua bocca renda gloria a Dio e intoni cantici e salmi, poiché la prima preoccupazione, alla quale lo Spirito si apprende fin dall'aurora, esso continua a macinarla, come una mola, per tutto il giorno, sia grano sia zizzania. Perciò sii sempre il primo a gettar grano, prima che il nemico getti la zizzania.

(Padri del deserto)

giovedì, giugno 08, 2006

CRONACHE DI PRIMAVERA

tratto da "Il Cenacolo"

Vedo che già cominciate, dice Dio, a progettare l’estate. C’è quel vestitino, non tanto caro, che vi andrebbe benissimo per le belle giornate che si preparano. Per gli uomini ci sono, invece, quelle belle polo colorate, così comode da indossare. E poi bisognerà pensare alle calzature perché quelle dello scorso anno sono troppo sciupate. Avete ragione, finché fate dei progetti siete vivi! E se prendete cura di voi stessi, vi rispetterete. Ma ho visto che, nonostante la primavera, avete l’aria triste anche se non lasciate trasparire niente. Voi sapete che io, dice Dio, non mi fermo al vostro bell’aspetto, ma penetro le profondità del cuore. Forse perché la bella stagione che ritorna annuncia feste di comunioni, battesimi, matrimoni.
Ma quella vostra giovane amica che vi ha invitato a nozze, ha spiegato che non si sposerà in chiesa. Non avete detto nulla e, per un attimo, vi è mancato il fiato. E avete scoperto che vostro figlio si è accordato con sua moglie per non far battezzare l’ultimo nato. Vi hanno detto: «Deciderà lui, quando sarà grande…». Già da qualche mese, poi, sapete bene che, quest’anno, non ci saranno comunioni perché la piccola non è andata al catechismo. E adesso, anche la figlia più giovane, dopo pochi mesi di matrimonio, se ne è tornata a casa, da voi... Tutto ciò l’ho visto, dice Dio, l’ho visto bene. E non perché sorveglio tutto come un gendarme pronto a staccare contravvenzioni, ma perché vedo tutto con gli occhi del cuore. Per questo guardo anzitutto a voi e vi dico: non abbiate paura. I vostri figli, i nipoti, io li amo. E, quindi, non giudicateli, e non credetevi colpevoli! Non è il loro battesimo, la loro prima comunione o le loro nozze che io amo. Io li amo perché essi sono figli vostri e anche miei. Forse non sono battezzati, ma questo non gli impedisce d’essere amati! Non ricordate che io sono un padre prodigo? Ogni giorno scendo fino all’ingresso, davanti a casa, perché so bene che verrà il tempo in cui essi ritorneranno tra le mie braccia! E se lo faranno, io li accoglierò. Ciò che non vi posso dire è quando, e per quali strade, perché i miei figli non possono essere tali se non quando sono liberi. E quando riappariranno sulla soglia, non sarà per paura o per dovere, ma solo per amore. Io, dice Dio, non posso dirglielo perché non ho una bocca. Ma voi, dite loro, da parte mia, dite loro che li amo. Diteglielo!

Pensieri e Parole

Come nasce questo blog?
Da Claudio che invia regolarmente una e-mail ai suoi amici con brani acchiappati qua e la.
Testi che aiutano a riflettere a farsi delle domande o a cercare delle risposte non banali, non conformiste, non retoriche.

Al mio invito di raccoglierle in un blog, Claudio ha risposto più o meno...." se vuoi pensaci tu"
E io raccolgo la sfida e farò da editore!