lunedì, agosto 28, 2006

L' Arcivescovo di cui c'è bisogno

Sono trascorsi 17 anni dalla morte del card Giuseppe Siri. Sono passati tre vescovi, ma ancora non siamo alla vera successione. Canestri ebbe la funzione di fare decantare 42 anni di regno personale; Tettamanzi fece appena in tempo a prendere atto del1a realtà ma fu dirottato a Milano; Bertone non ha fatto in tempo a scaldare la cattedra. Gli ultimi due vennero a Genova non in risposta ai bisogni della chiesa locale, ma perché promossi cardinali e Genova ne fu lo strumento. Anche il vescovo Bagnasco viene a Genova perché ha meritato sui campi militari la medaglia al valor cardinalizio. Egli è il vero successore a Siri di cui fu allievo, consulente e beniamino. L'eredità è salva. La diocesi un po' meno.

Da quasi 60 anni (i 4 di Siri e i 17 delle tre successioni) Genova è immobile, senza programmi pastorali efficaci, con un laicato sempre più disamorato, un clero sempre più isolato, le chiese, sempre più chiuse, la cultura religiosa latitante, tranne le parate ufficiali.

Per l'ultimo convegno sul centenario della nascita di Siri, non si trovò di meglio che la testimonianza dal senatore Giulio Andreotti, cioè la personificazione dell'equivoco italiano degli ultimi 60 anni.

Si sente dire sempre più spesso che Siri fu "un grande teologo", ma non si porta lacuna prova sia della grandezza che della teologia con cui Siri aveva un approccio scolastico di stampo liceale che non superava il livello nozionistico dei manuali pronto-uso. Il Siri-pensiero, infatti, si fermò all'11 ottobre del 1962, inizio del Vaticano II, che egli considerò una iattura per la chiesa e che combatté insieme ai suoi amici, il cardinale Florit di Firenze e il cardinale Ruffini di Palermo. A Genova che fu una fucina anche laicale di preparazione conciliare (Guano, Costa, Moglia, Lercaro, Viola, ecc.) il concilio fu sequestrato e bandito. Le conseguenze tragiche sulla chiesa si vivono ancora oggi. Questo il livello teologico ereditato da Siri che ancora si vuole proporre come modello oggi anche dopo avere varcato la fatidica soglia del terzo millennio.

Le problematiche di Genova città e diocesi sono enormi a cominciare dall'integrazione interculturale ed etnica con persone di diversa cultura e religione. La città è divisa per "ghetti" di settore: latinoamericani, indiani, arabi, filippini, ecc. che a loro volta ancora sono suddivisi per nazionalità o per traffici con il rischio già in atto che diventi luogo e merce di contesa più che ambito di scambio. La chiesa locale senza un capo che coordini e tiri le fila sapendo apprezzare l'autonomia del laicato è destinata al fallimento evangelico.

Abbiamo bisogno non di un cardinale, ma di un vescovo residenziale con voto solenne di stabilità residenziale come prescrive il concilio ecumenico tridentino.

Abbiamo bisogno di un vescovo che eviti le inaugurazioni mondane, ma visiti realmente la diocesi incontrando i preti e ripristinando il dialogo con il mondo laicale, lasciandosi "sedurre" dalla loro dignità di persone adulte: un vescovo lungimirante e non un pompiere che spegne preventivamente ogni anelito di novità.

Abbiamo bisogno di un vescovo che tutte le settimane dia appuntamento a preti e laici in cattedrale per pregare, non altro che pregare in silenzio; che si dedichi alla formazione del clero, che sappia incontrarsi come persona prima ancora che come vescovo, senza pregiudizi e senza lasciarsi condizionare dall'ambiente clericale che per natura tende a costruire cortine d'incenso; di un vescovo coraggioso che, partendo dalla constatazione che l'età media del clero è di circa 65 anni, sappia proporre scelte che aprano ai tempi futuri senza adattarsi al culto dei tempi passati.

Abbiamo bisogno di un vescovo che ascolti e conceda la buona fede, che abbia rispetto delle donne di cui voglia ascoltarne l'afflato dell'intelligenza e del cuore contrastando una mentalità sempre più maschilista, che parli più con la sua paternità che con la sua autorità, ben sapendo che l'autorevolezza non nasce dalla carica, ma dalla statura morale e spirituale del cuore.

Abbiamo bisogno di un vescovo che sappia porsi come interlocutore della "politica" senza compromessi, ma nella libertà della sua profezia e nel rispetto della politica e dei cristiani impegnati a gestire la "res pubblica" secondo coscienza.

Abbiamo bisogno di un vescovo che scelga i suoi più stretti collaboratori non per cooptazione, ma tra chi può aiutarlo ad un confronto nella diversità: se si circonderà dei suoi fedelissimi, resterà prigioniero di camarille e maldicenze e non sarà mai il vescovo in cerca dello Spirito disseminato nella sua diocesi.

Abbiamo bisogno di un vescovo profeta di Dio e servo del suo popolo non di un cardinale padrone o primadonna.

 

Silvana Caselli, Angelo Cifatte   (a nome di un gruppo di riflessione di 150 cattolici)

 

Il Lavoro-La Repubblica – 26 agosto 2006