Conoscevo una signora, una vicina di casa che quando io e mio fratello eravamo piccoli ci trattava sempre come fossimo dei principi; ricordiamo ancora i "gelatini" che ci regalava tutte le volte che ci vedeva per le scale, invitandoci a casa sua.
Una sera di primavera quella signora venne portata via da un'ambulanza: io assistetti dalla finestra di casa mia, senza fiatare, nascosta nel buio, come se stessi spiando qualcosa di proibito. Vidi partire l'ambulanza con dentro la signora con un respiratore ad aiutarla. Quel giorno conobbi la morte.
Prima di allora avevo visto delle persone senza vita, ma non mi avevano colpita quanto quella signora che non riusciva a respirare e che veniva portata via dagli infermieri. Per la prima volta mi trovai a pensare alla fine dell'esistenza, a come deve essere l'attimo in cui tutto si spegne e - per colui che se ne va - il mondo si ferma, l'universo intero trattiene il respiro. Un senso di impotenza e di ineluttabilità mi pervase; una sensazione di claustrofobia si impossessò dei miei pensieri per lunghi giorni.
All'improvviso mi trovai a chiedermi cosa ci fosse dopo la morte: forse era la prima volta che ci pensavo realmente: tutte le questioni riguardanti il Paradiso, fino ad allora, mi erano sembrate quasi ovvie, ma questo perché non vi avevo mai riflettuto. Mi trovai a chiedermi persino se potesse essere, sotto sotto, che ci fosse qualcosa di vero nel concetto di reincarnazione: mi pareva "poetica" l'idea che alla morte ci si trasformasse in qualcos'altro. Mi trovai a chiedermi se era poi realmente vero che ero una creatura speciale a cui spettava un posto speciale non soltanto quaggiù, ma anche dopo.
Molte cose traballavano nella mia testa, niente era più ovvio come prima, adesso la morte aveva un volto, aveva un suono, aveva una temperatura. Adesso potevo toccarla, sentirla, immaginarla. Capii che la morte non è un corpo inerte, bensì un'anima che ci manca; capii che quel che ci spaventa della morte non è tanto la sofferenza, quanto il nulla che ci pare possa sopraggiungere; non è l'attimo del distacco terreno, bensì la paura di doverlo attraversare da soli. Infine, pensai che non avrebbe alcun senso avere Dio vicino solamente nel corso della vita: che probabilmente il punto è proprio andare oltre.
Ricordai l'espressione di un prete che sentii ad un funerale molti anni prima: «... Attraversare la morte con la vita tra le mani». Fu la prima volta che capii cosa intendeva. Avevo pensato che era una cosa ben strana poter attraversare la morte, e ancora di più poter continuare a trattenere, in quel frangente, la vita tra le mani: capii che con la fede si poteva fare. Arriva un momento in cui la ragione ha talmente ragione che non ci lascerebbe mai credere altre cose: è in quei momenti che scopriamo se la nostra è una fede "di cuore" o "di testa". L'una e l'altra si aiutano ma, alla fine, la fede abbraccia il cuore: la testa deve solo accompagnarci fin tanto che basta a toccare gli estremi della fede, poi sopraggiunge il cuore.
Capii, allora, che la morte è una questione di cuore: che non vi è angoscia per chi al di là di essa vede una strada, e oltre quella strada Dio; che non vi è solitudine per chi sa che, anche se va, nel posto che lascia restano persone che gli rimarranno fedeli per sempre; che non vi è paura per chi ha vissuto meglio che poteva quel che ha vissuto, raccolto tutto quello che poteva raccogliere e dato tutto quel che poteva dare. Maristella Leandrin, "Il Cenacolo", ottobre 2013
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